Sul dogma dell’infallibilità della magistratura
Al di là della solita sfida giustizialismo contro garantismo
Rieccoci, spunta il complotto universale ogni volta che si parla di Why not e De Magistris in termini articolati, obiettivi e con lo sguardo al rapporto inquieto tra politica e magistrati, anche non più in servizio.
di Emiliano Morrone
Lo confermano reazioni scomposte a un mio articolo apparso di recente su Iacchitè, piene di congetture – non nuove – sul mio conto, spinte sino al sospetto di interessi personali dietro le mie scuse a Tonino Saladino, arrivate a 12 anni dal suo coinvolgimento in Why not, capitolo che la giustizia ha chiuso con una pronuncia della Cassazione che rimanda al verdetto del primo grado, per cui «il fatto non sussiste». Di fronte a questa formula possono ancora affacciarsi perplessità e “correttivi epistemologici”? È lecita la dietrologia permanente sulla non colpevolezza – Leonardo Sciascia avrebbe detto «in senso proprio tecnico» – di Agazio Loiero e degli altri ex accusati? Ed è corretto sostenere a oltranza il dogma dell’infallibilità (molto al di là della vicenda di Why Not) dei magistrati, senza distinzione alcuna sull’operato dei singoli e senza un sussulto interiore se fra di loro c’è per giunta chi ha cenato con propri indagati?
Tra i commenti contro quella mia riflessione su Iacchitè ne ho letti di suggestivi; in uno vengo perfino accostato al governatore della Regione Calabria, Mario Oliverio, come suo vecchio amico per la comune provenienza da San Giovanni in Fiore. Collegarmi a Oliverio è come ritenere Sacchi e Trapattoni apparentati dallo schema a zona.
Tangentopoli fu in Italia uno spartiacque: segnò l’inizio della delegittimazione della classe politica nel suo complesso: tutta sporca, tutta marcia, tutta castale, con la conseguenza di trasformare il motto di Heidegger, «ormai solo un dio può salvarci», in «ormai solo un Monti, solo un Draghi può salvarci». La morte della politica risale al ’92, l’anno di Maastricht. Ora abbiamo i rubinetti chiusi, i parlamenti ratificanti e i bilanci vincolati assieme ai leader del momento, a obsolescenza programmata come tv, cellulari e lavatrici.
Allora galoppò la spettacolarizzazione mediatica di Tangentopoli, in nome dell’audience e dunque della pubblicità commerciale. Perciò si radicò e diffuse l’idea della magistratura come potere buono, sano, giusto, provvidenziale, l’unico affidabile cui letteralmente votarsi e abbandonarsi. Dominò il pensiero che davanti alle connivenze e complicità politiche generali le Procure esercitassero una funzione suppletiva, di intervento e di bonifica delle sale di comando. Poi questo pensiero si consolidò: nacque il partito dei magistrati capitanato da Antonio Di Pietro e concentrato sulle denunce, spesso fondate, di abusi, violazioni, trattative di potere per il potere. L’Italia dei Valori diventò il riferimento politico dei movimenti per la verità sulle stragi degli anni ’90, sugli omicidi di mafia, sui silenzi permanenti dello Stato. Di Pietro, con cui lavorai fianco a fianco, appariva impeccabile: onnipresente, carismatico, attento, bersagliato dal mainstream, dall’intero arco parlamentare e addirittura colpito in “casa” propria. Penso, per esempio, alla sua (op)posizione nei confronti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da molti definita come estrema. E penso alla scelta dell’ex magistrato di piazzarsi a sinistra della sinistra, prima che Idv, perduta la partita del rovesciamento di Berlusconi tramite il “pentito” Fini, si squagliasse a stretto giro dal discusso servizio di Report sulle proprietà dello stesso Di Pietro.
C’è un fatto contraddittorio ed emblematico, però, che tanti non sanno o non ricordano. Il disegno di legge per l’introduzione del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale – che, malgrado l’“avvertimento” contenuto nella (sempre dimenticata) sentenza numero 275/2016 della Consulta, ha subordinato i diritti fondamentali, tra cui quello alla salute, alla disumanità dei conti pubblici – fu intanto d’iniziativa dei deputati dell’Idv Cambursano, Donadi, Borghesi, Cimadoro, Di Giuseppe, Di Stanislao, Messina, Mura, Paladini, Palagiano, Palomba e Piffari. E va rammentato che all’epoca, a mia memoria, soltanto il giurista Giuseppe Guarino, più volte ministro, tuonò contro il Fiscal compact, che costituì la base di quell’operazione disastrosa, bollandolo come «illegale».
Ora, questi pochi ma significativi elementi non sono sufficienti a farci rivedere l’assunto dell’insindacabilità assoluta della magistratura, generato e alimentato da un intero sistema che ha confinato il dissenso critico, la ricerca della verità oggettiva e storica e il ruolo precipuo della politica, la quale – per richiamare il filosofo Salvatore Natoli – ha da fare con il progetto per il bene comune e non con il mero governo della contingenza?
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