Sistema finanziario e degrado della Calabria: il nesso
Ho letto sul Quotidiano del Sud delle riflessioni di Battista Sangineto sopra il degrado della Calabria e le responsabilità interne. Non credo che lo sfasciume della sanità calabrese e l’inquinamento ambientale, al centro del suo ragionamento, debbano indagarsi nei termini di una contrapposizione Sud-Nord che adombri argomenti di meridionalisti importanti; quelli, per intenderci, che scrissero il volume Le Ragioni della mafia usando la maiuscola, cioè Faeta, Lombardi Satriani, Martino, Meligrana, Scafoglio, Tassone, Teti, Zagnoli e Zitara.
di Emiliano MORRONE
Sangineto ha rimarcato il problema della nostra responsabilità di calabresi, che nei discorsi comuni ci giustifichiamo imputando al Nord rovine e dominio. Ha quindi elencato una serie di fenomeni – abusivismo, cementificazione, abbandono della montagna e violenza al paesaggio – per cui, egli ritiene, sono da escludere o limitare colpe settentrionali.
Sicuramente guardarsi dentro alimenta una memoria morale: serve a ribadire l’effetto, in Calabria, di vecchie pratiche individualistiche; giova a ripetere il diffuso disinteresse per l’ambito pubblico, lo scarso senso dell’azione collettiva e del bene comune. Perciò, lo scritto di Sangineto ha l’utilità di riportarci, se vogliamo, alla realtà quotidiana, al familismo che sopravvive perfino nell’era della comunicazione digitale; come ha raccontato Mauro Minervino nelle sue istantanee per i luoghi diroccati della nostra terra, dentro le pagine di La Calabria brucia, oppure lungo la costa tirrenica, tra i primi piani e le panoramiche del più recente Statale 18.
Sangineto ha proposto di mantenere nel contesto calabrese il giudizio sulla nostra condizione pubblica: senza la ricerca di alibi al di fuori, quasi che la tesi della mafia – ‘ndrangheta – come prodotto della vecchia colonizzazione piemontese sia ormai inattuale o insufficiente a spiegare i nostri giorni. Come dire, il tempo cammina, il mondo evolve e cambia pure la Calabria, assorbendo la modernità industriale e la ragione capitalistica nel suo corpo storico.
Io penso che vi siano tre questioni di cui dire, interrogandosi sull’attualità di Le Ragioni della mafia, che condensa quella visione meridionalistica cui Sangineto si è opposto, nel suo articolo. Alludo a denaro, partiti e lavoro.
Per quanto riguarda il denaro, il suo costo è, in Calabria, tra i più elevati al mondo. Lo denunciò l’imprenditore di Rizziconi (Reggio Calabria) Antonino De Masi, vittima di usura bancaria dedotta in Cassazione. In pratica, le banche (del Nord) prestano soldi – quando vogliono – applicando interessi insostenibili. Ciò impedisce l’attività d’impresa in Calabria e nuoce all’economia, relegata ai consumi.
Che i centri finanziari dell’Italia siano nel Nord è un fatto. Lì le mafie investono nella gestione del credito, riciclando illecito come risaputo. Ma vi sono motivi più datati, se il motore bancario è a Nord. Sul punto rinvio i curiosi agli studi di Nicola Zitara in L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria.
Il sottosviluppo (voluto) del Sud ha portato grandi capitali nelle regioni meridionali, da ultimo con l’Unione europea, sempre per la brama di sodalizi criminali partecipati dal potere politico. In sintesi, la disparità fra Nord e Sud e la devastazione che certi poteri, finanziari, decisionali e militari, realizzano nel Meridione è funzionale alla tenuta di un consolidato circuito economico. È qui che, per brevità, introduco il ruolo pluridecennale dei partiti, i quali hanno assicurato l’accentramento del potere, utile per le lunghissime, dispendiosissime emergenze ambientali e sanitarie nel Mezzogiorno, per le assunzioni smisurate nella pubblica amministrazione e per l’assistenzialismo a pioggia che si reitera, soprattutto in Calabria. Questo sistema è stato poi modificato dal nuovo titolo V della Costituzione, che ha introdotto un federalismo conservativo dei rapporti di forza, economici, tra Nord e Sud. Ciononostante, i partiti restano portatori di interessi privati, come osservava Leonardo Sciascia, e mediatori tra il centro (Roma) e la periferia inquinata (Taranto o Crotone) o abbandonata (per esempio Locri).
È nel meccanismo speculativo della finanza – il quale, sorretto dai partiti, lega il potere bancario e industriale del Nord – che si deve rinvenire, se la desertificazione nei siti produttivi di Crotone, Gioia Tauro o Vibo Valentia ha insegnato qualcosa, la causa prima della paralisi della Calabria; nella quale, ancora oggi, si attendono i mostri tipo Europaradiso o i “regali” della legge di stabilità, per parlare di occupazione, lavoro e futuro.
Condivido molto di questo intervento. Non so quanto di queste analisi poi circoli là dove si prendono le decisioni importanti, sui piani politico ed economico. Ma forse, pur conoscendole, chi dovrebbe non ne tiene conto, et puor cause.
Alle considerazioni sopra lette, credo che bisognerebbe aggiungere un’analisi altrettanto efficace sul ruolo che l’intellijencia calabrese ha avuto in questa rovina, che mi pare manchi.
LA CALABRIA, LA LUCANIA, E L’ITALIA
Condividendo l’analisi e la riflessione, a commento e a sollecitazione di ulteriori approfondimenti, mi permetto di invitare a rileggere
“Cristo si è fermato ad Eboli” e a soffermarsi sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi – Torino” (p. 40, ed. Einaudi). Un ‘cortocircuito’ tra ieri (1935) e oggi (2014) che offre una sintesi eccezionale della locale e nazionale follia.
Sul tema, in generale, questa notazione: ” (…) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (…) Le opere pubbliche, le bonifiche, sono ottime cose, ma non risolvono il problema. La colonizzazione interna potrà avere dei discreti frutti materiali, ma tutta l’Italia, non solo il mezzogiorno, diventerebbe una colonia” (p. 220).
Il libro di Carlo Levi, a mio parere, è ancora tutto da leggersi oggi – assolutamente profetico.
Federico La Sala
Gentile dottor Morrone,
mi è capitato di trovare, per caso perchè non ho familiarità con il web, questo articolo che cita ampiamente, e di questo la ringrazio, il mio articolo. Per la verità la mia posizione non è affatto in contrasto con quella che lei cita, ma complementare: io credo, come gli studiosi che lei cita, che non solo l’Unificazione sia stata fatta male, ma anche che una parte consistente della responsabilità sia da attribuire alle classi dirigenti nazionali ed, ora, internazionali, per intenderci al turbocapitalismo. Credo, però, che non possiamo pensare che noi calabresi, noi classe dirigente (politici, medici, professori universitari, giornalisti et cetera), noi “società civile” calabrese si sia privi di colpe, di responsabilità e non si viva in una società degradata e profondamente connivente con il crimine, con il malaffare e con la malapolitica. Le cose che ha letto le scrivo da anni su il Quotidiano e, fino alla sua morte, su Liberazione. Se vuole leggere altre mie cose su questi argomenti, ma soprattutto sulla salvaguardia del paesaggio e dei beni culturali (sono un archeologo), può farlo su:https://unical.academia.edu/battistasangineto. Molti cordiali saluti
Battista Sangineto