Ferdinando, Giannetto e l’umanità dei San Bernardo
Ferdinando Munno (in foto, nda) ha una passione molto rara per i cani di San Bernardo. È allevatore di prestigio, persona semplice e verace. Lo raggiunsi nel suo fondo a Roccasecca (Frosinone), il 28 luglio del 2015.
di Emiliano Morrone
Dovevo scegliere una cucciola che tenesse compagnia al mio Ettore, che a gennaio 2013 volli a ogni costo. Da mesi avevo smarrito una meticcia che nell’estate calata mi aveva trovato per istinto, forse per destino.
Andò così. Di me la cagnetta non sapeva nulla, ma sembrava aspettarmi. A volte il caso non è troppo casuale. Mi scodinzolò, mi puntò gli «occhi di malinconia» cantati da Califano e mi porse le zampe anteriori con uno scatto fiducia. Può essere che avesse respinto d’ufficio la maldicenza sul mio conto seminata dal potere politico di San Giovanni in Fiore, condita di narrazioni sfasate e perfino ridicole. Capii che non potevo lasciarla in quell’umida campagna che ci scrutava al verso pulsante dei grilli. Ero tornato da un’estenuante giornata a Gioia Tauro, l’ennesima del periodo, perso in un’inchiesta su presunti interessi mafiosi sul nuovo ospedale della zona, frutto ancora acerbo dell’emergenza sanitaria che nel dicembre 2007 ordinò in Calabria il primo ministro Prodi. Allora la battezzai sul momento «Gioia Tauro», non indugiai. Mi convinsi che le piaceva il suono di quel nome insolito, ma si trattava di un mio delirio poetico, o piuttosto di una fantasia da giornalista sfiancato, che rifugge dai finti “cristiani”. L’abituai al mio quotidiano, di pc e carte digitali sullo sfasciume della pubblica amministrazione calabrese. La cagnetta mi stava accanto come l’«Angelo necessario» di Cacciari. In seguito le mostrai lo spazio urbano e confuso della mia San Giovanni in Fiore, di strade e case ammucchiate, cemento asfissiante e verde cestinato, per cui vale l’adagio dialettale «‘u Segnure runa päne a chine ‘un tena dienti», «il Signore dà pane a chi non ha denti». Poi s’allontanò in Sila con un cane scuro, che avevo nominato «Alva» per divertito contrasto col Thomas Edison della lampada a incandescenza. Non tornò mai più «Gioia Tauro», e ne provai dolore. Per conseguenza imprevedibile, iniziai a leggere delle virtù e mitologie del San Bernardo, approdando infine sul sito dell’allevamento di Ferdinando. Mi catturò una sua foto assieme a un esemplare prodigioso della razza, «Tiago»: occhi languidi, muso immacolato, testa imponente e un’intesa perfetta col padrone, desumibile dall’espressione dei due personaggi, mai in cerca d’autore.
Finì che presi un cucciolo di San Bernardo di appena tre mesi, che Ferdinando mi portò a Eboli, dove avremmo potuto incontrare Cristo, se soltanto si fosse trattenuto nei paraggi. Spaventato forse dal viaggio fino a lì, il cane, figlio di «Tiago» e di «Doina del Re Leone», era l’immagine compiuta della tenerezza. Lo chiamai «Ettore» per sentito omaggio all’amico cardiochirurgo Ettore Vitali, che avevo conosciuto al Niguarda di Milano nel marzo 2003. Ho scritto altrove di lui, che all’epoca dirigeva il Dipartimento cardio-toracico dell’ospedale meneghino, presso cui mi recavo ogni giorno per assistere la mamma, costretta dagli eventi a un delicato intervento di rimodulazione del ventricolo sinistro. Vitali aveva una dote unica: con l’immediatezza del monzese alleggeriva la sofferenza dei malati, coi quali parlava da uomo, senza il distacco del medico. Ne nacque un’amicizia pura; in fondo anche io ero – e resto – un romantico provinciale. «L’abito non fa il monaco», direbbe mio cugino Emilio, cappuccino 2.0 rapito dal dialogo interreligioso.
A Eboli arrivai col mitico Giovanni Orlando, a San Giovanni in Fiore noto per l’indole come «Zu’ Giuvänni ‘e ri cäni», e con Cristian, ragazzo rientrato dall’Inghilterra dopo sacrifici e risparmi, investiti nella riapertura del bar locale “Modernissimo”, restituito ai fasti della remota gestione di Francesco Burza, che dopo emigrò a New York e il cui figlio Giovanni sposò mia zia Serafina, alias «Nella». Il tempo di un caffè e delle ultime raccomandazioni, Ferdinando mi consegno la meraviglia di «Ettore» e salutò con sincera cordialità.
A un anno e passa «Ettore» scomparve dal suo territorio. Di punto in bianco: non una traccia, un indizio, un motivo. Telefonai a Ferdinando, che mi rassicurò ipotizzando che il San Bernardo fosse dietro a una cagna in calore. «Se deve pure sfoga’. Tornerà, vedrai, quello ha un radar», sentenziò con tono di certezza. Trascorsi quattro giorni all’asciutto di notizie, mi attivai con incalzante frenesia. Lanciai appelli via Facebook, traversai montagne e mi avventurai in foreste incantevoli ma fitte.
Mi disorientai, nel buio pomeridiano dell’otto gennaio 2014. Ma appresi che il San Bernardo era stato visto e fotografato da un gruppo di lavoratori forestali. Giannetto Loria, il caposquadra, ne aveva pubblicato degli scatti sul suo profilo Facebook. Lo riconobbi, era il mio «Ettore», rinsecchito e con l’aria dell’anima vagante. Con Giannetto, sentito al cellulare, fissammo un appuntamento il giorno seguente, al principio del mattino. Mi scortò col suo furgoncino sino al punto dell’avvistamento. Nei giorni precedenti gli operai avevano alimentato il San Bernardo a una certa distanza, con panini, prosciutto crudo nostrano e commovente premura. Il cane, riferirono, stava sulle sue: distante, guardingo e abbacchiato. Lo vidi, nella gelida e luminosa mattinata del 9 gennaio, a non più di dieci metri dal mio passo. Mi diressi verso di lui, che prima sobbalzò per scappare, poi si voltò e mi abbracciò su due zampe. Una scena memorabile, davanti agli sguardi attoniti di quei manovali affiatati, partecipi, soddisfatti. Ringraziai di cuore e a un’ora buona informai Ferdinando.
Con Giannetto, eroico come i colleghi, divenni amico reale. Lo stesso con «U savellise», tra i protagonisti del salvataggio del San Bernardo.
Per arricchire il mio spirito, strano a dirsi, da Ferdinando prelevai una cucciola di San Bernardo, esattamente il 28 luglio 2015, centotredicesimo anniversario della nascita di Karl Popper, da cui avevo imparato che le teorie vanno falsificate. Questa è la scienza, che cammina incerta come i cani perduti, spaventati, solitari. Dunque appellai «Sofia» la compagna di «Ettore», che presto ne rivoltò la pigrizia e ne curò le ferite interiori. Il San Bernardo, infatti, era stato picchiato, come rilevai dai bernoccoli sul testone. Si vede che nel suo peregrinare aveva incrociato qualche malintenzionato, che adesso non ripeterebbe quell’azione vigliacca.
Ferdinando mi ha aperto un orizzonte, lo ammetto per iscritto. Ai cani, e in particolare ai San Bernardo, manca la parola. Gli uomini, che ce l’hanno, spesso la sciupano nella banalità, nell’arroganza o nella vanagloria. Oppure tacciono per pochezza.
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