Ciao, Attilio. Se ne va il cardiochirurgo Renzulli, dimenticato in fretta
Attilio Renzulli (in foto, nda) è morto lontano dalla Calabria, forse non a caso.
L’ex primario cardiochirurgo del policlinico dell’Università di Catanzaro è stato dimenticato in fretta. Non si legge alcuna nota di cordoglio sul sito dell’ateneo. In home page compare la notizia, del 14 ottobre scorso, di un convegno interno sul danno esistenziale.
di Emiliano Morrone
Articolo apparso su Corriere della Calabria, il 18 ottobre 2016
Allievo del celebre Maurizio Cotrufo, Renzulli venne in Calabria con la passione dei visionari e con piena contezza dell’ambiente. La prima ebbe la meglio, dopo arrivarono i guai.
Come René Favaloro nella sua Argentina, Renzulli portò in Calabria la voglia di lavorare, l’esperienza, l’umanità, la dedizione, il desiderio di aiutare i pazienti di una terra dimenticata, marginale, spogliata di beni, speranze e dignità, in cui l’emigrazione sanitaria costa 278 milioni all’anno.
Provò con tutte le forze ad avviare una cardiochirurgia di rilievo, efficiente, affidabile, risolutiva. Tra l’altro impiantò i dispositivi di assistenza ventricolare, un ponte per il trapianto cardiaco. Lo fece in una specie di deserto: non c’era nulla nella regione, nulla a questo livello tecnico e tecnologico. Intanto a Milano il suo collega Ettore Vitali riceveva, giustamente, lodi e apprezzamenti per la stessa attività; i giornali ne riportavano i successi, l’andare oltre le frontiere mobili della chirurgia del cuore, in Italia sempre eccellente e sicura.
Spesso operare in Calabria significa cancellarsi. Puoi essere un Maradona in ogni professione, ma patisci in largo l’arroganza e ingratitudine di un sistema, culturale e politico, orientato da soldi e fuffa. Chi guarda da fuori, invece, ti vede in una regione periferica e complicata, in cui non c’è verso e per cui non vale la pena. Allora sembri un folle, come Renzulli, perché ti ostini a lottare, a costruire una sanità migliore, sul piano medico o del giudizio critico, della coscienza civile.
La vicenda di Renzulli va ricordata perché emblematica di una terra in cui l’ingiustizia spopola come l’emigrazione. Qui, ancora oggi, la normalità è ribaltata nell’indifferenza generale. La diffusa assenza della istituzioni e il silenzio delle coscienze producono un’alterazione dei fatti, dei valori, della verità.
Riguardo al policlinico universitario di Catanzaro, Renzulli denunciò la mancanza della terapia intensiva per i soli pazienti cardiochirurgici, cioè di un locale a sé, indispensabile, con mezzi, personale e percorso dedicati. Appena dopo il medico fu sostituito alla guida dell’unità operativa di Cardiochirurgia. Non gli fu mai conferito l’ordinariato, inoltre, nonostante le pubblicazioni scientifiche e il curriculum di primo piano. L’olimpo accademico gli preferì altri con meno sapere.
Tuttavia Renzulli non mollò. Raccontò in profondità le ferite personali, le prassi di un potere silenzioso ma forte, pervasivo, condizionante: l’università italiana. Al policlinico di Catanzaro seguirono ispezioni parlamentari e le verifiche di due commissioni di controllo, i cui atti riportano la mancanza dei requisiti di legge, partendo dalla questione della terapia intensiva dedicata.
Adesso lo scomodo Renzulli non c’è più. Tutto è rimasto come prima, benché il direttore generale del dipartimento Tutela della salute, Riccardo Fatarella, abbia – in commissione Vigilanza del Consiglio regionale – riassunto a chiare lettere situazione, rischi e pericoli della Cardiochirurgia universitaria catanzarese. Quel dipartimento è ancora fermo, non decide.
Il tempo scorre come la vita; incerta, debole ma segnata da opportunità di riscatto, da occasioni per dare un senso altro all’esistenza, alto.
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