Il bosone di Higgs, la decrescita serena, l’Aleph e la Terza Età
Sta per iniziare l’esperimento Big Bang 2.0 con la macchina Large Hadron Collider, del Cern. Flash, telecamere, webcam, Internet, colonne di giornali, tg: delirio. Si tratta dell’acceleratore di particelle più grande al mondo: 27 Km di tubi speciali, costo 6 miliardi di euro, serviranno a cercare «la particella di Dio», il bosone di Higgs[1].
di Emiliano Morrone
Saggio apparso nel 2008, con il titolo Il bosone di Higgs, la decrescita serena, l’Aleph e la Terza Età: senso di vuoto e attesa di giustizia, nell’era dell’economia canaglia, su Topologik, rivista internazionale di studi pedagogici e filosofici
L’infinitamente piccolo darà per collisione, nel futuro prossimo, una porzione di quantità spaziale d’energia[2]. Questo s’attendono i fisici nucleari che lavorano al progetto. Apparati fotografici immortaleranno, nonostante la velocità delle particelle, prossima a quella della luce, momenti memorabili del viaggio nell’anello di magneti e segreti sotto la ricca Ginevra, a una profondità di 100 metri. La stampa è al lavoro per documentare l’onnipotenza dell’uomo, incapace di fermare la fame planetaria, che incede rapida e silenziosa. Tutto predisposto il 10 settembre 2008, alla vigilia del settimo anno dalla caduta delle Twin Towers, fatto che ci ha cambiato come l’abbattimento del Muro di Berlino, iniziato il 9 novembre 1989.
È assai curioso che all’interno del circuito di Large Hadron Collider ci sia una temperatura di -271 gradi Celsius, tecnicamente necessaria, e che nell’Africa morente e negli inferni della povertà meridiana il caldo faccia esplodere pestilenze e malattie, davanti a focolai perpetui di guerra.
La fisica domina la scienza, la chimica orienta il business[3], l’economia sovrasta la politica. È un mondo per pochi, nonostante il progresso. Il Divario Digitale[4] persiste: lo scambio di informazioni e saperi è limitato, a beneficio del potere culturale, pedagogico e politico della televisione e dell’editoria[5], in oligopolio. Il mercato è invece aperto, sregolato, libero. Tanto che si può acquistare un Kalashnikov Ak-47 con relativa facilità e i cartelli colombiani della cocaina riescono a comprare agilmente pacchetti di servizi offerti dalla ’ndrangheta, che permette loro straordinari investimenti di capitali e riciclaggio sicuro in Europa[6].
Al business non si comanda. Le contrattazioni sono sganciate da forme di garanzia individuale e collettiva. Soprattutto il commercio elettronico, favorito dall’allargamento ubiquitario delle reti di vendita e dalla virtualizzazione del danaro, svela il nuovo paradigma di uomo apolitico, acritico, isolato nel proprio esotismo domestico[7] di merci e servizi via web, pagati in anticipo e terapeutici[8]. Da un pezzo, la vecchia alienazione prodotta dal lavoro – in cui rientrava l’assenza di tempo e l’impossibilità di determinare collettivamente le dinamiche della produzione – è stata sostituita dal rifugio nell’apparente e nel virtuale[9].
Ricuperare la lezione sulla politica di Hannah Arendt[10], in tempi di economia asfissiante e globalizzazione virulenta, è opportuno e può valere a combattere quel fenomeno, ormai avanzato, per cui Leonardo Sciascia usava la Sicilia come metafora; vale a dire la convinzione contagiosa che le idee servano a nulla e che il mondo si regga su altro: rapporti imperscrutabili di forze finanziarie ed economiche in grado di manipolare l’organizzazione giuridica della società[11].
Del resto, le multinazionali della cultura – che comunque la si ponga, veicolano proprio idee e modelli etici e antropologici – indirizzano i loro prodotti, accentuando nei contenuti la deresponsabilizzazione soggettiva e la dimensione edonistico-individualistica dell’esistenza, a consumatori sempre più giovani di età; ottenendo così maggiori profitti e l’offuscamento della valenza sociale di idee e ideologie.
Buenos Aires, anno 2002. L’uomo cammina nella notte, lasciata una mescita semichiusa. Si ferma, un lampione illumina a singhiozzi; vi s’appoggia. L’ombra del rigurgito è nell’aria, se n’avverte l’imminenza. Il buio cupo del silenzio in strada ammanta la scena, imprevista e reale. Quel locale è tra i pochi, magari il solo, ancora in forse. Il resto è chiuso, fermo, serrato, dismesso. Ogni calle intorno è tomba di voci. Dai palazzi ai lati misteriosi non trapela suono, un fruscio di radio, il gargarismo d’un frigo alla pensione, gorgóglio di gabinetto, motteggio compresso d’un coniugio fresco, un sospiro ritmato di passione, il gocciolare di canne di lavello, il ticchettìo di prime sveglie circolari, scricchioli di porte senescenti, chiacchiere di sbracciati panettieri. Non più gli sbuffi di rotative per notizie né il trillo d’un telefono d’emergenza, o ansimi di pazienti aggrovigliati.
L’uomo china il capo, è lì che sta per rimettere; tra le dita della mano destra gira una moneta. Si vede chiaro: è una moneta comune da venti centesimi. Scioglie il rigore dell’atmosfera: all’improvviso, estraniato dice: «Ancora, seppure parzialmente, sono Borges (in foto, ndr)».
In piena recessione, persi risparmi, proprietà e fiducia, gli argentini sopravvissero, dopo il boato perpetuo di Ground Zero, con Borges e la letteratura.
Parafrasare il racconto dello Zahir[12], la moneta che, salutata la defunta Teodolina Villar, giunse nelle mani dello scrittore quale resto dell’aranciata bevuta in una mescita, ci vale a introdurre il tema della «decrescita serena», già presente nel dibattito politico italiano e francese.
Borges sta per vomitare, nell’aggiornamento arbitrario dello Zahir. Che cosa tenta di espellere? L’abbondanza, l’eccesso: tutto quanto non è strettamente necessario a un’esistenza libera e dignitosa.
Di fatto, la percezione diffusa della povertà si basa, in Occidente, su sensazioni tipicamente occidentali. Si tratta dell’effetto d’un atteggiamento acritico, che rifiuta comparazioni. Si potrebbe affermare che ciò corrisponde, in sostanza, alla mancanza generale d’una Weltanschauung. Ma sarebbe un grave errore.
Nell’ultimo anno, varie pubblicazioni di carattere economico-politico si sono preoccupate, a partire da una descrizione oggettiva e particolare dello stato delle cose, di mostrare i limiti del mercatismo, che genera sfruttamento, devastazione e angoscia.
Tra queste, alcune delle quali hanno suscitato un certo, apparente entusiasmo presso la stampa, due sono già state poste in suggestivo rapporto di compendio, con tutte le distinzioni di sorta. Si tratta di La paura e la speranza[13], di Giulio Tremonti, che nel titolo riporta felicemente un istituto politico (volutamente) cancellato dai media, «la speranza», e di Breve trattato sulla decrescita serena[14], di Serge Latouche.
Tremonti sostiene che oggi occorre ritrovare l’identità (europea) comune di princìpi e valori, innanzi al fallimento della globalizzazione. Secondo Latouche, invece, è bene persuadersi che si può vivere senza il mito della crescita infinita (del mercato); recuperando la dimensione umana, per decrescita, in relazione alla Terra e alla natura.
Sul piano teorico, le origini e gli approdi dei loro discorsi presentano differenze molto profonde. Tremonti chiama l’identità europea e batte su autorità, famiglia, responsabilità e federalismo; in vario modo legati alla strutturazione del cattolicesimo. Latouche consegna al lettore un vero e proprio manifesto della decrescita, che non è troppo lontano dall’utopia spiritualistica di Gioacchino da Fiore, già discussa su Topologik, nei suoi – anche potenziali – risvolti politici.
Oltre le resistenze proprie della catalogazione, è possibile afferrare il concetto di decrescita con l’immagine di Borges che tiene lo Zahir, nella breve “riedizione” più sopra proposta. Detto alla spicciola, ci serve Borges, non l’iPod.
Il tratto più caratteristico della nostra contemporaneità è forse il dilagare della categoria del patologico.
La scoperta dell’inconscio e i progressi circa la conoscenza della psiche e del cervello hanno sfatato molteplici e radicate convenzioni riguardanti la follia. Non è possibile, in proposito, tracciare una linea di demarcazione netta fra normalità e il suo contrario, essendo l’uomo instabile per natura. Non di rado, il marchio della pazzia è sovente impresso da maggioranze, in relazione al loro peso politico, inteso in senso lato. Ad esempio, sarebbe stato il timore della diffusione del suo pensiero ateo, nutrito da teologi cristiani, a causare la fama di invasato al poeta latino Lucrezio. Nel suo Chronicon, Scrive San Girolamo: «T. Lucretius poeta nascitur, postquam a poculo amatorio in furorem versus et per intervalla insaniae aliquot libros conscripsisset, quem Cicero post emendavit, propria manu se interfecit aetatis anno suae XLIII» («Nasce il poeta T. Lucrezio, che dopo essere impazzito per un filtro d’amore e aver scritto alcuni libri [del poema?] negli intervalli della follia, che Cicerone pubblicò postumi, si suicidò quarantatreenne»).
Da più parti, si ritiene che la malattia organica dipenda da cause psicologiche. A queste, si aggiungono l’inquinamento generale del pianeta e un’alimentazione a base di Ogm, di sostanze che restringono le coronarie, di cibi contenenti particelle di metalli et coetera.
In estrema sintesi, il superfluo, frutto della crescita inarrestabile della produzione e dei consumi, determinerebbe una società di individui alienati, deresponsabilizzati e confusi dai media; distratti e, in primo luogo, malati nella psiche e nel corpo. Il richiamo a Lucrezio è parso significativo: De rerum natura, il suo celeberrimo poema didascalico, può indirettamente diventare un appiglio letterario della decrescita, rispetto alla tendenza globale alla distruzione e alla sostituzione, chimica, genetica o virtuale, della materia originaria.
Ma torniamo a Borges e al suo conato di vomito. Nella nostra reinterpretazione immaginaria dello Zahir, lo scrittore diventa una metafora dell’Argentina di sei anni fa. Si badi: non rimette, ma è sul punto di farlo. Piuttosto che scagliarsi contro il Fondo Monetario Internazionale e le politiche con cui la sua terra è stata ingannata e depredata, preferisce suggerire una strategia filosofica per avversare la crisi finanziaria; spontaneamente seguita, nella realtà, dalle nuove generazioni di argentini – e visibile nella loro sorprendente e parallela ripresa dello spirito: cinema, librerie, cultura. Di lì a poco, una recessione galoppante avrebbe colpito gli Stati Uniti e l’intero globo, meno che la Cina; che ha in mano il debito pubblico degli Usa.
La strategia del personaggio Borges ha molto a che fare con la fede nella conoscenza e nelle idee, col modello d’una globalizzazione culturale attenta ai modi di vivere, ai diritti, alla redistribuzione delle risorse, alla qualità della vita. Nulla di marxistico, intendiamoci, ma un vero invito a rallentare ritmi e volumi dell’ordine economico mondiale, imposto da élite condizionanti, per l’appagamento dello spirito, che è sapere.
Considerando seriamente i problemi di sopravvivenza dei paesi sottosviluppati, connessi anzitutto all’indisponibilità di derrate alimentari, non è improbabile che, valutando assieme gli esiti dell’assetto politico ed economico maturato dopo la caduta del comunismo sovietico, si convenga sulla «decrescita serena», che per Latouche «non è la crescita negativa»[15]. Muovendo da analisi economiche e prospettando un futuro, precisa l’autore: «Sarebbe meglio parlare di a-crescita, così come si parla di a-teismo. In effetti, si tratta proprio di abbandonare una fede o una religione, quella dell’economia, del progresso e dello sviluppo, di rigettare il culto irrazionale e quasi idolatra della crescita fine a se stessa. Si tratta di una proposta necessaria per ridare spazio all’inventiva e alla creatività dell’immaginario bloccato dal totalitarismo economicista, sviluppista e progressista»[16].
Il modello politico di Gioacchino da Fiore, seppure concepito da – e per – esigenze dello spirito, si può definire, senza oltraggio, una sorta di decrescita a priori: un’organizzazione della società fondata sulla mutua cooperazione e sulla povertà; che, tradotto, significa produzione e consumo del necessario, nell’attesa del compimento della storia. Per Latouche, l’esortazione alla «decrescita serena» è un atto razionale, che scaturisce dall’analisi economica del presente.
In L’Aleph, scrive Borges: «La verità non penetra in un intelletto ribelle»[17]. Resta da vedere che cosa è l’Aleph. «Un Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti», premette Borges, nell’omonimo racconto. Ci si potrebbe domandare se, nella fattispecie, ha senso inquadrarlo, nell’ambito della fisica, ricorrendo alla coppia aristotelica potenza-atto; posto che l’equazione di Einstein, forse di Olinto De Pretto, stabilisce che da una massa minuscola può, con un’accelerazione pari al quadrato della velocità della luce, aversi un’immensa energia. Andrebbe quindi chiarito che cosa c’entra l’Aleph con la decrescita e con l’utopia gioachimita della Terza Età, l’età dello Spirito Santo.
Con rigore scientifico, Borges ha enunciato: «Un Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti». Siamo sicuri che, cavalcando con la nostra fantasia e persino scavando fra le nozioni della nostra mente, siamo solo autorizzati a rapportare questo pensiero con le complesse dialettiche in seno, oggi, alla disciplina fisica? La predetta proposizione di Borges può anche leggersi come invito a meditare sulla pacifica coesistenza dei saperi parziali e sull’utilità di ricondurli a unità universale?
L’universo ha, per i fisici, una fine. Nella teoria matematica dei numeri cardinali transinfiniti, di Georg Cantor, il primo di essi è aleph-zero.
«Nel suo assoluto oggettivismo, la scienza positiva, astraendo da qualsiasi soggetto, non dà risposte all’“enigma della soggettività”, e produce una frammentazione del sapere, riducendo quest’ultimo a mera verifica dei fatti e a una lettura matematica della natura. Al fine di recuperare l’intenzionalità universale che era all’origine della filosofia e di ritrovare il senso intersoggettivo in grado di orientare la società, la storia e gli ideali etici dell’umanità, occorre, secondo Husserl, tornare al-mondo-della-vita (Lebenswelt)»[18].
Il poeta Giacomo Leopardi conclude con questi versi il suo (canto) Infinito: «(…) Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare». Davanti all’orizzonte dell’infinito, si deve per forza «naufragar», cioè abbandonarsi alla contemplazione? Questa contemplazione è soltanto dei credenti?
Nel capitolo XIX del Libro dell’Esodo, al versetto 21, Dio ordina a Mosè: «Scendi, scongiura il popolo di non irrompere verso il Signore per vedere».
Nella Sura II del Corano, al versetto 115, è scritto: «Ad Allah appartengono l’Oriente e l’Occidente. Ovunque vi volgiate, ivi è il Volto di Allah. Allah è immenso e sapiente». In un hadith qudsi, cioè un testo in cui Maometto riferisce parole di Allah non raccolte nel Corano, figura: «Né i Miei cieli né la Mia terra mi contengono, ma il Cuore del Mio credente servitore Mi contiene».
Borges racconta d’aver visto l’Aleph e d’aver pensato, prima di scendere nella buia cantina in cui si trovava, a una trappola di Carlos Argentino Daneri, l’uomo che gliene indicò la posizione. «Improvvisamente compresi il pericolo che correvo: mi ero lasciato sotterrare da un pazzo, dopo aver bevuto un veleno». Poi, ne descrive la visione: «Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. (…) Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa era infinite cose (il cristallo dello specchio, ad esempio), perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo. (…) Vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigine e piansi, perché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha mai contemplato: l’inconcepibile universo. Sentii infinita venerazione, infinita pena»[19]. Nel Poscritto del primo marzo 1943, a conclusione del racconto, Borges, interrogativo, confessa: «Esiste questo Aleph all’interno di una pietra? L’ho visto quando vidi tutte le cose, e l’ho dimenticato? La nostra mente è porosa all’oblio; io stesso sto deformando e perdendo, sotto la tragica erosione degli anni, i tratti di Beatriz»[20].
L’Aleph è per Borges il Tutto nell’Uno. Egli può solo raccontarcelo rimembrando; avvertendoci del tradimento della memoria, su cui il tempo agisce senza scrupoli. Ciononostante, (gli) è possibile narrare, esporre, testimoniare: consegnare quel vissuto, inventato o concreto, alla storia. La storia è parola, Logos, piuttosto che traccia o particella originaria, reperto o bosone di Higgs. Non esiste alcuna storia al di fuori del linguaggio. Lo aveva ben inteso Ray Bradbury, l’autore del romanzo Fahrenheit 451, ambientato in un futuro in cui leggere libri è reato, per contrastare il quale un corpo di vigili del fuoco brucia ogni volume. Il titolo del libro si riferisce alla temperatura di autocombustione, 451° Fahrenheit, pari a 232,78° C.
Nell’incipit del Vangelo di Giovanni, è scandito: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste».
«Decrescita serena» (Latouche), reazione politica all’egemonia desertificante del libero mercato (Arendt), riconoscimento della coabitazione delle conoscenze nel sapere (Borges), spiritualizzazione della vita e collaborazione al progetto comunitario per la salvezza (Gioacchino da Fiore)[21], interiorizzazione della forza trascinante delle idee e comprensione del valore storico della parola narrata sono teorie e pratiche vicine.
Le contraddizioni del pianeta, i suoi drammi macroscopici, l’orizzonte chiuso della fine del petrolio, il senso di vuoto costruito dai media col vuoto di senso[22] e l’ingiustizia quotidiana avvertita individualmente come macigno dell’esistenza possono trovare risposte incalcolabili, sotto il suolo di Ginevra.
Jorge Luis Borges è sepolto nel cimitero di Plainpalais, nella parte sud della città elvetica. In basso alla sua lapide è scritta in inglese antico la frase «And ne forhtedon na» («Giammai con timore»), proveniente dal poema epico del X secolo La battaglia di Maldon. A poca distanza dalla sua tomba, passeranno le particelle accelerate del Large Hadron Collider.
Note:
[1] L. LEDERMAN, D. TERESI, The God Particle: If the Universe Is the Answer, What Is the Question?, Mariner Books, Boston/New York, 2006, pp. 448.
[2] M. KRAMER, F. J. P. SOLER, Large Hadron Collider Phenomenology, Crc Press, United Kingdom, 2004, pp. 473.
[3] G. MORGAN, R.WARD, M. BARTON, The contribution of cytotoxic chemotherapy to 5-year survival in adult malignancies, Clinical Oncology (Royal College of Radiologists, Great Britain) n. 16, dicembre 2004, England, pagg. 549-560.
[4] A. CALDERARO, Digital Divide, l’informazione nelle dinamiche tecno-economiche, InnovAzioni, rivista di cultura politica, n. 6, Polis, Milano, 2006, pagg. 100-104.
- NORRIS, Digital Divide. Civic engagement, information poverty, and the Internet Worldwide, Cambridge University Press, 2001, pp. 303.
[5] N. CHOMSKY, E. S. HERMAN, La fabbrica del consenso, il Saggiatore, Milano, 2008, pp.502.
[6] L. NAPOLEONI, Economia canaglia, il Saggiatore, Milano, 2008, pagg. 66-73.
[7] Cfr. A. FABRIS (a cura di), Etica del virtuale, Vita e Pensiero, Milano, 2008, pp. 206.
[8] Cfr. T. CANTELMI, L. GIARDINA GRIFO, La mente virtuale, San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo, 2002, pp. 176.
[9] D’ALPA F., CAIA C., Acculturazione e “democrazia digitale”, stampato in proprio, Catania, 2001, pp. 152.
[10] H ARENDT, The Promise of Politics, Schoncken Books, New York, 2005, pp. 70-80.
[11] N. CHOMSKY, Stati falliti, il Saggiatore, Milano, 2007, pp. 347.
[12] J. L. BORGES, L’Aleph, Adelphi, Milano, 1998, pagg. 86-87.
[13] G. TREMONTI, La paura e la speranza, Mondadori, Milano, 2008, pp. 111.
[14] S. LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 136.
[15] Ivi, pag. 17.
[16] Ivi, pagg. 18-19.
[17] J. L. BORGES, L’Aleph, cit., pag. 131.
[18] F. CRESPI, F. FORNARI, Introduzione alla sociologia della conoscenza, Donzelli Editore, Roma, 1998, pag. 123.
[19] J. L. BORGES, L’Aleph, cit., pp. 134-135.
[20] Beatriz Viterbo, cugina di Carlos Argentino Daneri, è il personaggio con cui si apre il racconto borgesiano dell’Aleph. Deceduta, nello scritto, il 30 aprile 1929; lo stesso giorno del 1941, Borges, intrattenendosi più del solito a casa sua, dove ogni anno si recava per ricordarla, ebbe modo di avviare una più intensa frequentazione con Daneri. Successivamente, Borges seppe da questi dell’esistenza dell’Aleph, che era nella cantina della sua casa.
[21] Nella teologia della storia di Gioacchino da Fiore, la salvezza è evidentemente collegata al divino. Il 26 agosto 2008, i giornali italiani hanno riportato e commentato passi d’un recente discorso elettorale di Barack Obama, candidato democratico alla presidenza degli Usa. Nel medesimo, il senatore statunitense ha ripetutamente citato l’abate calabrese suscitando diverse considerazioni. Articolisti italiani vi hanno scorto l’intento di riunire la Massoneria e il segnale di un’apertura nei confronti della Chiesa. In un’intervista rilasciata ad Adnkronos, il filosofo Gianni Vattimo ha visto nel riferimento di Obama un appello alla sinistra pacifista americana e, in breve, la possibilità d’un nuovo corso globale, nel dichiarato filone gioachimista del politico.
[22] Cfr. F. BATTIATO, M. SGALAMBRO, Il vuoto, in Il vuoto, cd, Universal, Milano, 2007.
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